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“Il senso della vita”…di Paola Sposito
Abbiamo ricevuto qualche giorno fa ma pubblichiamo oggi, un racconto (ai tempi del Covid-19) di Paola Sposito dal titolo "Il senso della vita"...una storia dove (una volta tanto) a correre è stata l'immaginazione, al posto delle gambe
Eccoci qui, tutti fermi nelle nostre case autorizzati a venirne fuori solo per esigenze indispensabili.
Tralasciando la scia di morte che questa pestilenza si sta lasciando dietro, a noi che siamo ancora immuni, in fondo poi cosa ci è stato chiesto? Di restare dentro casa, di interrompere i contatti con le nostre famiglie, con gli amici, di fermare la nostra vita cancellando tutto quello che facevamo fino al giorno prima. Sono una podista, agonista amatoriale la cui giornata è organizzata per farci stare dentro un allenamento di corsa insieme agli impegni di lavoro, la famiglia, le relazioni sociali.
All’inizio ho fatto fatica ad accettare il fatto che non avrei potuto correre liberamente per strada e che non avrei potuto seguire i miei allenamenti in montagna poi, tutta baldanzosa, ho sostituito gli allenamenti di corsa con altre attività in casa; ora è arrivato il tempo della nostalgia, della tristezza, della rassegnazione. Niente può sostituire 10 chilometri in linea retta vicino al mare o un bell’allenamento di salita in montagna. Mi piace correre sull’asfalto, ma preferisco correre in mezzo alla natura, anche da sola.
Una domenica pomeriggio, mentre fuori il mondo trattiene il fiato immobile, per placare la nostalgia delle mie corse vado a cercare sul computer foto di gare passate. La prima che trovo mi raffigura con le braccia alzate in cima alla bottoniera dei Monti Sartori in un tratto molto suggestivo della Etna Trail del 2018, l’ultima che ho percorso nella distanza di 24 km. E’ una gara che si corre intorno all’Etna, molto tosta per via del fondo sabbioso, del caldo forte, le forti pendenze, i canaloni di sabbia. Una gara molto selettiva che mette a dura prova la forza fisica e di testa di ogni corridore. Nonostante l’avessi preparata abbastanza bene, quella gara fu molto impegnativa a causa del mal di altitudine che mi disturbò fin dalla mattina pregiudicando così la riuscita della gara.
Rovistando nelle cartelle del PC trovo altre foto di quella gara: una mi ritrae insieme ad amiche ritrovate per l’occasione, in un’altra sto rifocillandomi ad un ristoro, in un’altra ancora corro sotto il traguardo a ricevere la sudata medaglia.
E così inizio un gioco: provo a ripercorrere mentalmente tutta la gara, fin dove mi aiutano i ricordi.
Inizio dallo start che quell’anno fu all’insegna della festa: nel piazzale di Piano Provenzana, l’ultimo punto raggiungibile con i mezzi prima del deserto lavico, la società organizzatrice della gara approntò una discoteca all’aperto e fu subito festa con balli, salti, abbracci trascinati da una musica coinvolgente ed energizzante. Poi lo start diede inizio alla gara: ero così emozionata che per i primi chilometri corsi come in trance con le gambe vuote ed il petto martellato dai battiti. Nonostante le gambe un po’ traballanti comunque correvo bene. Dall’asfalto si passa dentro il bosco di pini lungo la pista di sci “Poiana” ed il profumo di resina e di terra che si solleva al passaggio di quella mandria umana impazzita entra nelle narici e ti riempie i polmoni. Per ora il percorso lungo la pista è un sali scendi continuo e questo mi aiuta a riprendere fiato. Dal dodicesimo chilometro si inizia a salire in maniera graduale ancora in mezzo agli alberi. Dopo una salita lungo i fianchi di Monte Concazze, percorsa appendendomi agli alberi che mi aiutavano a tirarmi su, sbucai al rifugio Citelli che si trova a quota 1734 metri, proprio all’interno dell’antica caldera di questo cratere avventizio. Di fronte al rifugio era apparecchiato un meraviglioso ristoro che non aveva nulla da invidiare ad un banchetto nuziale. Feci a pugni con la mia golosità che mi sussurrava di mettermi comoda per mangiare tutto quello che potevo ingurgitare e dopo aver mandato giù solo un po’ di frutta percorsi il piazzale in cemento antistante il Rifugio e iniziai la salita verso la Valle del Bove. Per farvi capire la durezza di questo tratto denominato “Serracozzo”, vi dirò che la fatica che feci è paragonabile al travaglio che precedette la nascita di mio figlio. Infatti in seguito a quella esperienza giurai a me stessa che mai più avrei corso quella gara se prima non mi fossi allenata proprio su quella salita almeno per dieci volte! Comunque non so in virtù di quale stella del cielo arrivai in cima ed iniziai a percorrere la traccia che costeggia la Valle del Bove, famosa caldera nera ricettacolo delle colate laviche degli ultimi 30 anni. Un pentolone, una enorme conca piena di pece che un tempo era lava bollente e spumeggiante. Il vento lassù è sempre potente ed avendo il baratro da un lato è meglio procedere accovacciati per non rischiare di essere spinti giù. Mi ero riparata dietro un lastrone di pietra e, per riprendere fiato, stavo piegata con le mani sulle ginocchia e la testa a penzoloni verso il terreno con il cuore che bussava per uscire dal petto. In quel momento mi parve di sentire un grido. Alzai lo sguardo e davanti a me, a circa 50 metri, vidi una donna stesa a terra ai lati del sentiero ed in piedi un’altra figura che dopo un attimo di incertezza si allontanava velocemente. Mi avvicinai più in fretta che potei alla donna ancora a terra. Aveva un graffio profondo sulla gamba destra che sanguinava un po’ ed escoriazioni ad entrambe le mani. Niente di grave per fortuna. Era straniera quindi le chiesi in inglese se stesse bene e l’aiutai ad alzarsi. Mi sorrise facendo di si con la testa, mi ringraziò con un abbraccio e piano iniziò a camminare. Invano le dissi di aspettare i soccorsi; lei era già venti passi davanti a me e non feci in tempo ad estrarre dallo zaino la mia borraccia per darle un sorso d’acqua che già correva zoppicando. Restai quindi con una borraccia nella mano protesa in avanti verso il nulla ed uno sguardo che esprimeva incredulità per quello che avevo visto. Poi guarda caso ero anche sola e nessuno poteva confermare se ciò che avevo visto era stato il frutto della mia immaginazione o della stanchezza. Ripresi a camminare ma la testa andava a quel volto: “Dove ho già visto quella faccia? Io conosco questa atleta” dissi a voce alta. Alla parola atleta ebbi un balzo: ”Ecco chi è!” urlai. “E’ Maria Lopez”.
Maria Lopez è una atleta professionista, una che della corsa ha fatto la sua professione. E’ una ultra maratoneta che corre in ambienti naturali dove ci sono condizioni climatiche e di temperatura veramente estreme. Cito solo due tra le sue innumerevoli imprese: la ultra maratona di 260 chilometri in Nepal con 2900 metri di altezza raggiunta in sei giorni di gara e l’ascesa verso la sommità della Aconcagua, la montagna più alta d’America, con i suoi 6.962 metri.
Corre in posti meravigliosi Maria e la pagano pure. Gli sponsor che lei porta in giro sulle sue belle gambe la pagano bene e con quei soldi fa tanta beneficenza portando lei stessa aiuti economici ai bambini poveri, orfani o emarginati in diverse parti del mondo.
E’ bella Maria. Ha un fisico statuario, scolpito come fosse marmo, che si è costruita abituando il corpo a sostenere temperature estreme, allenamenti di corsa lunghi, sotto la pioggia, la neve, o con il caldo torrido.
Del resto della mia Etna Trail ho un ricordo di gambe stanche che riescono a recuperare quando rientro nella pista da sci con i suoi sali e scendi, per cedere nuovamente negli ultimi due chilometri di eccezionale salita su sabbia vulcanica. Negli ultimi 500 metri di discesa che portano lisci al traguardo, mi vedo correre e saltare come uno stambecco su pietroni di lava che se ci cadi sopra sono dolori. Poi il traguardo con l’abbraccio di mio marito e mio figlio, la medaglia e le chiacchere con gli amici con cui commentare l’esperienza appena vissuta. In velocità vado verso la postazione delle premiazioni per cercare Maria Lopez ma mi dicono che è già andata via. Cerco di sapere come stava, se era arrivata con le sue gambe o l’avessero soccorsa ma nessuno seppe dirmi qualcosa. Mi riprometto di contattarla per una intervista una volta tornata a casa ma, presa da mille impegni e passata l’emozione della gara, lo dimenticai.
A distanza di anni quell’episodio occorso sul ciglio della Valle del Bove lo avevo proprio rimosso. E così in questi giorni di quarantena decido di contattare Maria per sapere come la sta affrontando, come vive in casa, se riesce ad allenarsi. Riesco a recuperare il suo numero non proprio facilmente e la contatto con un messaggio Whatsapp, che è meno invasivo, chiedendole un appuntamento telefonico per una chiacchierata. Mi risponde il giorno dopo dicendomi che al momento non può rilasciare interviste per questioni di contratti con gli sponsor ma, passati cinque minuti, mi scrive che ci ha ripensato e che le va bene sentirci per telefono. Così la chiamo: “Ciao Maria. Certamente non ti ricorderai di me, sono la podista che ti aiutò a rialzarti nella gara sull’Etna in Sicilia, due estati fa. Beh è normale che tu non ricorda è passato così tanto tempo…” – “Ricordo, ricordo bene” mi risponde invece. Rimango stranita. Come fa una stella del suo calibro che ha visitato milioni di posti nel mondo, che ha conosciuto migliaia di persone a ricordarsi di un episodio così marginale? “Sei una giornalista?” mi chiede. “Freelance” rispondo “Collaboro con alcuni giornali che si occupano di podismo e di natura”.- “Adoro correre in mezzo alla natura” mi interrompe. “ Mio padre mi ha insegnato ad amarla e rispettarla. Vivo la maggior parte dell’anno facendo allenamenti lunghi in montagna ad alte quote, nei ghiacci e nei deserti, faccio arrampicata, sci alpinismo e sci di fondo, torrentismo e a volte anche lunghe passeggiate quando mi va di stare da sola. Negli allenamenti non sono mai sola; mi accompagnano fotografi, videomaker, fisioterapisti ed a volte anche il medico. Sono un personaggio pubblico. Ma mi piace quello che faccio, mi diverte e mi pagano pure.” E sbotta in una sonora risata. Poi inizia a raccontarmi di come sta vivendo questo momento storico così particolare. “Quando è iniziata questa follia stavo già qui a Ernen, piccolissimo paese nella Svizzera Francese ai piedi del ghiacciaio Fiesh dove ho una bella casa con un grande giardino davanti e soprattutto dotata di una splendida palestra.” E scoppia di nuovo a ridere. “Se mi segui sui mezzi social avrai visto sicuramente i miei allenamenti. E si, sono un po’ strong lo ammetto. Mi piace fare esercizi per rafforzare la muscolatura, lo ritengo necessario perché non puoi correre bene se non hai un fisico forte e muscoli tonici. Il nostro corpo è una macchina complessa ma equilibrata dove tutti i muscoli lavorano in sinergia. Ho sempre allenato il mio corpo per renderlo forte e resistente non solo per le gare ma anche per affrontare le difficoltà che la vita ci presenta.” Si ferma un attimo ed io non la sento più. “Maria” la chiamo, forse è caduta la linea. “Sono qui. Pensavo, ti va di vedere alcune foto degli allenamenti che faccio in casa?” “Scherzi? Certo che mi va” le rispondo. “Sai credo che forse in qualche modo la terra si stia ribellando.” mi dice, “Abbiamo preso e preso tanto da lei, l’abbiamo sfruttata, violentata, abbiamo scannato i suoi animali e credo che ora si stia ribellando. Credo sia da folli non comprenderlo o fare finta che non sia così. C’è bisogno di cambiare i nostri comportamenti, di vivere in maniera più semplice, di mostrare rispetto verso ogni creatura; occorre rallentare i nostri tempi, mollare oggetti inutili, comprare di meno, mangiare di meno. Occorre essere più umili. Sai forse qualcuno pensa di essere immortale e di non dover mai morire.” Lo dice in maniera accorata ma è triste, sembra stia piangendo. Mentre la ascolto mi arrivano le sue foto. Le scorro, due tre, le guardo meglio, sto per dirle che mi ha mandato foto sbagliate perchè non riconosco la donna che c’è dentro quelle foto. Ma le parole mi muoiono in bocca e rimango muta. Allargo con le dita la prima foto: una figura femminile prona intenta a fare flessioni sul braccio destro, il sinistro piegato dietro la schiena, muscoli in tensione, il corpo scultoreo quasi ligneo, lo sguardo ed il volto sono rivolti verso l’obiettivo. Sembra Maria quella donna ma non ha i capelli, è priva di sopracciglia e sembra invecchiata di dieci anni. Guardo la seconda foto: esterna, il ghiacciaio imponente alle spalle, la stessa donna si tira su per una barra di ferro montata su due aste piantate in un angolo di un rigoglioso giardino. Una testa calva, gli occhi spiritati si affacciano oltre la barra. Sembrava la testa di una vecchia poggiata sul corpo di un’atleta più giovane di dieci anni. Non c’è dubbio è Maria Lopez. “Quando ero più giovane pensavo che con lo stile di vita che conducevo ero in una botte di ferro, che con lo sport e l’alimentazione sana avrei tenuto lontane le malattie e che sarei rimasta sana e bella per sempre. Poi con l’età sai, la morte di mia mamma, il contatto con bambini malati che ho visitato in diverse parti del mondo, ho cambiato idea. E allora ho iniziato a fortificare il corpo e l’anima nella eventualità che avessi potuto incontrare qualche brutta bestia. Da Agosto ho iniziato la ultra maratona più dura per me. Come potevo avvelenare quel corpo che era rimasto puro così a lungo? E’ solo grazie allo sport che sono riuscita a resistere e a sopportare tutto.” Sembra sollevata ora che mi ha raccontato otto mesi di dolore e sofferenza in poche condensate battute. Si è liberata di un peso. Non occorre aggiungere altro, sto in silenzio. “Dillo pure al mondo intero, anzi scrivilo, così che non possa essere frainteso, che essere umano significa essere fragile, corruttibile, distruttibile più di quanto si possa pensare. Che è inutile pensare di essere infallibili o perfino immortali, che la sofferenza prima o poi tocca tutti. Spero che se ne renda conto anche l’atleta che nel 2018 in cima alla valle del Bove, nell’ennesimo mio tentativo di superarla, mi spinse di lato facendomi cadere sulle rocce. Sono certa che lo fece apposta perché dopo avermi spinta, mi guardò e ridendo mi freddò con un “Così impari. Mi dovevi superare per forza?” Maria rise. “Che sciocca. Non sa che l’umiltà è una dote essenziale per chi corre nella natura. La natura sa essere matrigna, bisogna esserne consapevoli e rispettarla iniziando a rispettare chi insieme a noi la vive e la percorre.”
“Sei rimasta senza parole?” mi chiede ridendo. “Si, no, scusami non voglio dire nulla perché qualsiasi cosa intelligente io possa pensare di dire sarà comunque sciocca. La forza e la determinazione per affrontare questa tua personale gara tu ce l’hai dentro. Posso chiederti un’ultima cosa? Ma la gara come andò a finire?”- “ “Dopo esserci lasciate zoppicavo parecchio perché la gamba mi faceva male. Sul punto più alto prima di iniziare la discesa c’era Mario che aveva del ghiaccio sintetico. Lo tenni sulla gamba per un po’, il dolore si attenuò ed iniziai ad accelerare finché non ripresi quella ragazza. Le rimasi dietro per un po’ non solo perché non avevo voglia di interagire con lei ma anche perché aspettavo di essere più veloce per superarla. Usciti dal bosco, come ben sai, inizia un chilometro circa di salita che gira dietro il ristorante Monte Conca. Lì ho accorciato le distanze ed approfittando della sua stanchezza e visto che c’era lo spazio per farlo in sicurezza, la superai senza dire una parola. Lei si girò verso destra e quando ero già avanti di venti passi lanciò un urlo disperato di rabbia. Che esagerata pensai. Ovviamente andai a vincere arrivando prima donna assoluta. Ho atteso che arrivasse al traguardo e, porgendole la mano, le ho sorriso. Lei mi ha preso la mano, ha ricambiato il sorriso e mi ha detto “Scusa. Gli sponsor mi hanno pressata e di conseguenza mi sono comportata male con te. Credo proprio di dover rivedere tutto: ho dimenticato il vero senso di correre nella natura.”
Da ieri Maria ha ripreso i suoi allenamenti e da casa sua è salita sul Fiesh per 8 km; negli ultimi 4 ha dovuto indossare i ramponi per camminare sul ghiacciaio, poi è ritornata a casa in tempo per preparare la cena. Me lo ha scritto stamattina ed era molto felice.
E’ superfluo dire che per raccontare questa storia ho corso tanto con l’immaginazione visto che non potevo farlo con le gambe. Rimane la realtà di questo morbo che nostro malgrado ci siamo ritrovati addosso. Restiamo pazienti e rispettiamo le regole, rispettiamo la natura e rispettiamo il nostro prossimo e forse ce la caveremo. (PS)
Foto archivio siciliarunning