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Supermaratona dell’Etna: una riflessione sui sogni, sui simbolismi e su come la Natura trionfa su tutto
Pubblichiamo il racconto di Simona Patti, una delle quindici atlete che sabato scorso hanno tagliato il traguardo della Supermaratona dell’Etna…la 0 – 3000 che ogni anno regala, fatica, gioia ed emozioni…le stesse che ha provato Simona…il suo più che un racconto è una riflessione a 360° è una dedica particolare alla natura vista come la vera vincitrice della competizione…
“Fin da quando ho saputo dell’esistenza della supermaratona dell’Etna, la 0-3000, l’ho sempre considerata una gara affascinante per il fatto che si parte dal livello del mare per poi arrivare sulla cima del vulcano, una gara ricca di simbolismi perché può considerarsi un’ascesa, un mettersi a confronto con le salite e le difficoltà della vita, e infine un passaggio attraverso le stagioni, estate alla partenza, primavera e autunno strada facendo e inverno all’arrivo.
Una gara che mi incuriosiva ma che ritenevo al contempo impossibile per me, qualcosa riservato solo a pochi eletti, atleti del calibro di Calcaterra per esempio.
Quest’anno invece ho avuto la spregiudicatezza, l’incoscienza e la follia di iscrivermi e presentarmi alla linea di partenza, che già di per sé considero una vittoria considerati gli allenamenti che ho portato a termine in preparazione della 0-3000 e che mai avrei pensato di potere fare! Penso comunque che per certe gare non si possa mai avere la piena certezza di essere adeguatamente preparati, visto che a correre le maratone ad esempio si impara “sul campo” e l’esperienza si fa sulla propria pelle, non basta ascoltare i consigli degli amici o letti su riviste specializzate: ci sarà sempre una prima volta, una seconda, una terza e con un po’ di determinazione e umiltà si può sicuramente migliorare. In qualsiasi caso questa gara non è una “semplice” maratona, considerate le difficoltà degli ultimi chilometri, da percorrere oltre i 1800 mt di altitudine e su sterrato.
Mi sono accinta a questa impresa con la consapevolezza che avrei potuto fallire, che forse sarebbe stato troppo per me, nel tentativo comunque di dimostrare a me stessa che si deve provare a realizzare i propri sogni, che non può esistere un’impresa che vorrei portare a termine e in cui non mi avventuro perché nella mia testa sussistono idee preconfezionate del tipo: “Non si fa!”, “Non sei portata!”. Ci dovevo almeno provare e ce l’ho fatta!
Nonostante negli ultimi tempi io abbia partecipato a diverse gare, che vivo serenamente come attività sportiva e ludica, presentarmi alla linea di partenza di Marina di Cottone, al cospetto dell’Etna, mi ha fatto avere le farfalle nello stomaco: guardavo verso l’alto quella vetta innevata con un misto di inquietudine e desiderio, come quando si è innamorati e si perde l’appetito, ci si agita e si trepida nell’attesa di incontrare il proprio amore!
Il primo tratto che ci portava ad allontanarci dal lungomare è stato quello più difficile, sicuramente per me dal punto di vista psicologico: tutta la gara era lì davanti ai miei occhi, i chilometri che mi lasciavo alle spalle erano meno di quelli da percorrere e l’emozione della partenza, che fa tremolare le gambe e accorciare il respiro, non mi permetteva di regolarizzare e controllare il passo. Per fortuna eravamo scortati da organizzatori, parenti e amici, chi col quad, chi in moto o in macchina… la loro presenza è stata importante, simbolicamente ci hanno tenuto per mano e accompagnato in questa prima parte del percorso, quasi fossimo tutti una carovana compatta, prima di lasciar andare ogni partecipante per la propria strada, anche se dal punto di vista dello spazio percorso, la strada era la stessa! Anche mio marito Paolo (che ha deciso di non partecipare a questa gara per potersi dedicare ad altri allenamenti) mi ha fatto da scorta approfittandone per scattare foto a tutti i concorrenti e, tra una foto e l’altra, mi passava la crema solare per evitare ustioni, una bottiglietta d’acqua o una lattina di coca cola se rimanevo a secco, la giacca a vento prima che iniziasse a grandinare, aspettandomi paziente lungo tutto il percorso nei punti pattuiti per incontrarci. Posso dire che questa Supermaratona l’abbiamo corsa insieme, io con il corpo e lui con l’anima e il cuore, il suo aiuto è stato fondamentale e arrivava tempestivo prima che io chiedessi qualcosa, perché lui già sapeva di cosa avrei potuto avere bisogno in quel preciso momento.
E quando Paolo non era presente, accadevano piccole cose, improvvise e inaspettate a consolarmi o rassicurarmi. Non dimenticherò mai un gruppo di “tifose” formato da 5-6 donne di tutte le età ad un fioraio, prima di entrare a Linguaglossa: figlie, madri e nonne che mi applaudivano e mi incitavano ad andare avanti urlando: “Brava, dai, che gli altri sono già passati!”. Quanto valeva uno sguardo di queste donne, quanto un loro sorriso! Quante parole mi stavano dicendo con i loro occhi benevoli… ecco, in quel momento sentivo che loro stavano correndo con me, che mi sostenevano, che io dovevo proseguire a testa alta in loro onore! Perché io ero il loro orgoglio femminile, la dimostrazione che noi donne possiamo cimentarci in un’impresa del genere, che possiamo scalare la Montagna! Non dimenticherò nemmeno il punto di ristoro con la meravigliosa doccia che riempiva un’enorme tinozza piena di arance e limoni: sudata e accaldata, ho infilato la testa sotto l’acqua corrente e nel frattempo guardavo galleggiare quegli agrumi, frutto e simbolo della Sicilia, questa terra sulla quale stavo correndo.
Per fortuna sono riuscita a distogliere il pensiero dalle calde temperature che hanno caratterizzato la prima parte della gara, concentrandomi invece sui pochi tratti di strada all’ombra o sulla frescura che mi davano i ristori o i bambini che mi sparavano acqua addosso con le loro pistole… qui posso fare una riflessione sui punti di vista e sui termini di paragone: io partivo dal presupposto che correre la Supermaratona non sarebbe stata una passeggiata, anzi mi aspettavo da un momento all’altro un calo delle mie condizioni fisiche o una salita più ripida delle altre dietro l’angolo. In quest’ottica, ho vissuto come grande privilegio e fortuna quei brevi momenti in cui percorrevo un tratto alberato o uno pianeggiante. Di certo se mi fossi fissata sull’eccessivo caldo o sul fatto che i ristori non erano collocati esattamente ogni 5 km come in una maratona “standard”, o sulla mancanza di banane e sali minerali, non sarei andata molto lontano.
Lasciatami Linguaglossa alle spalle, sono iniziati i tornanti della Mareneve che ritenevo fossero più noiosi; in questi chilometri, nei momenti in cui ero sola e comunque nelle retrovie della gara, pensavo agli altri partecipanti che prima di me avevano calpestato quell’asfalto, a come erano bravi e allenati per trovarsi in testa alla corsa, e che nel tempo che io impiegavo per coprire parzialmente il percorso, avrebbero tagliato il traguardo poco sotto i 3000 metri di altitudine. Per fortuna non mi scoraggiava il fatto di arrivare in fondo alla classifica, o dall’essere superata da qualcuno più allenato di me; anche in questo caso è solo questione di punti di vista: io sono arrivata lì sull’Etna dopo aver iniziato a correre quattro anni fa, mentre i primi magari corrono da dieci, vent’anni! Simbolicamente loro hanno iniziato a correre verso la cima dell’Etna dieci anni fa, mentre io solo da quattro… è giusto quindi che loro siano davanti, che arrivino prima di me, visto che sono partiti prima. Io, a mia volta, sono davanti a coloro che approcciano alla corsa in questo momento e davanti a quelli che non partiranno mai; in quest’ottica arrivo a sentirmi un’eroina, io che sto osando correre la 0-3000! I pensieri positivi sono un toccasana quando si corre per ore e ore, sono riusciti a trasformarsi anche in gocce di pioggia, che prima del 20° km mi hanno portato un bel refrigerio. L’asfalto della strada ha iniziato a raffreddarsi emettendo un vapore che rendeva tutto il percorso più suggestivo e i chilometri si susseguivano più rapidamente di quanto mi aspettassi.
La cima dell’Etna era sempre lassù, anche se a tratti veniva avvolta dalle nubi; guardando verso l’alto mi sono commossa al pensiero che stavo per raggiungere un sogno nel cassetto: il mio sogno era il traguardo nascosto proprio dietro quelle nuvole! I pensieri fluivano a briglie sciolte… riflettevo che quando si cerca di raggiungere i propri sogni non si può che essere felici, che dobbiamo lottare con tutte le nostre forze per raggiungerli, che non dobbiamo permettere a niente e nessuno di intralciarci e che dobbiamo proseguire verso il nostro obiettivo con risolutezza e determinazione. Il mio primo obiettivo era quello di giungere al cancello del 33°km di Piano Provenzana entro le 5 ore imposte come tempo limite e in 4 ore e 49 minuti ci ero riuscita. Ho trovato anche la forza per proseguire, nonostante fossi stata bersagliata dalla grandine e dal vento per 3 chilometri di fila: mai abbandonare quando il più è fatto, non ci si può accontentare di un sogno raggiunto parzialmente, non si può vanificare gli sforzi compiuti fino a quel momento!
Sotto il tendone del cambio Paolo mi comunica che forse lui non potrà salire all’arrivo di Pizzi Deneri, all’Osservatorio Vulcanologico, perchè i mezzi della STAR da quel momento avrebbero compiuto solo corse per riportare i finisher a quota 1800 mt, viste anche le condizioni meteo non proprio clementi: lui avrebbe dovuto prendere un ultimo fuoristrada qualche minuto prima del mio arrivo a Piano Provenzana, ma non lo ha fatto per potermi attendere e aiutare nel cambio. Questo è per me un ulteriore incitamento a proseguire: dovevo andare avanti per me e Paolo, dovevo concludere qualcosa che era iniziata la mattina sulla spiaggia di Marina di Cottone, ma che in fondo è iniziata proprio quattro anni fa, quando siamo usciti per la prima volta a correre insieme, arrancando con fatica per meno di venti minuti!
Con scarpe e maglia asciutti ci si sente meglio e ho iniziato a percorrere i primi tratti dello sterrato vulcanico accompagnata da buone sensazioni: le gambe ce la facevano e i muscoli non erano particolarmente indolenziti. Mentre però nel tratto sull’asfalto mi sentivo particolarmente lucida e presente a me stessa, degli ultimi chilometri ho ricordo di sensazioni più sfumate: ero a contatto diretto col vulcano, questa presenza viva ed energica, i piedi affondavano nella sabbia nera, intorno a me il nulla e al contempo il tutto… Girandomi indietro vedevo il mare, forse proprio il lungomare da cui era iniziata la mia avventura quella mattina, poi Piano Provenzana che diventava sempre più piccolo e lontano fino a scomparire, e profondi crateri a testimonianza di chissà quale eruzione passata. L’altitudine, intorno al 35°km, si fa sentire sul mio corpo abituato a vivere a livello del mare e nausea ed ebrezza si alternano; mentre fino a quando correvo su strada mi sentivo sicura dei miei passi e determinata, adesso inizio un po’ a vacillare, sento tutto il peso del mio corpo che cerca di arrampicarsi per quelle salite e vorrei correre, ma non ce la faccio e mi accontento di camminare, senza fermarmi, perché sentivo che fermarsi sarebbe stato sbagliato, sarei stata risucchiata dalla potenza del vulcano, che è più grande di me, che è più forte di me… Mai illudersi di poter anche competere lontanamente con la Natura! Guardavo gli altri partecipanti, che mi precedevano o mi seguivano, tante piccole formichine in fila indiana che barcollavano, arrancavano rassegnati; io ero come loro, stavo provando lo stesso sconforto, ma non potevo mollare, dovevo proseguire! La mia lentezza era inimmaginabile e invece velocemente si avvicinavano nubi nere e minacciose, così cupe da sostituirsi alla voce dell’Etna: lei, la Montagna, era in silenzio, mentre da quelle nubi uscivano tuoni poco rassicuranti che sembravano ammonirci: “Chi siete voi, per osare presentarvi al cospetto di Sua Maestà?”. Ci ricordavano che noi non siamo nulla, che potevamo essere spazzati via da una raffica di vento… e raffiche di vento e grandine non sono mancate negli ultimi 3 km! A quel punto era difficile mantenere la concentrazione e la mia determinazione di poche ore prima stava pian piano svanendo. Il paesaggio era lunare, e la grandine che ci colpiva trasversalmente portata dalle raffiche di vento gelido iniziava ad ammantare di bianco i sentieri di sabbia nera. Del traguardo ancora nemmeno l’ombra! A quel punto ho realizzato di non avere mai vissuto finora una situazione così potenzialmente pericolosa: mi trovavo oltre i 2500 metri di altitudine, con fulmini che cadevano vicini, sotto la grandine che non smetteva di “impallinarmi”, con un abbigliamento che non si poteva più considerare adeguato, con le dita delle mani che iniziavano a perdere la sensibilità. Ecco, ho avuto paura, e ho pensato che sì, bisogna fare di tutto per raggiungere i propri sogni, ma non si può sacrificare tutto per un sogno solo, non si può rischiare la propria incolumità in maniera incosciente. Mi arrendo di fronte alla forza della Natura, va bene la caparbietà e la determinazione, ma sull’Etna, come su tutte le montagne, si deve “camminare in punta di piedi”, con umiltà e ricordandosi sempre che non siamo altro che dei poveri esseri a cui viene concessa la possibilità di essere accolti per brevi istanti tra le braccia della Natura, a volte benevola a volte crudele. Prendo la decisione che da quel momento (mi trovavo dopo il 40°km), se fosse passato un mezzo fuoristrada o qualsiasi altra cosa, io lo avrei fermato e sarei salita su, per questa volta avrei sacrificato la gloria del compimento della gara alla mia incolumità.
Ma non passava nessuno e io non potevo di certo fermarmi ad aspettare come se fossi alla fermata dell’autobus! Ci sono momenti nella vita, momenti di grande difficoltà, in cui ci è concesso di arrenderci e forse arrendersi è liberatorio perché non si deve più lottare per tenersi a galla e ci si può abbandonare alla debolezza. Ma ci sono volte in cui non ci viene concesso il “privilegio” di mollare tutto e non ci si può fermare né tornare indietro, si può solo andare avanti, anche se andare avanti significa stringere i denti e dare fondo alle ultime energie residue… energie che si pensa di non possedere e invece miracolosamente accorrono in nostro aiuto! I cartelli segnaletici del 41° e del 42° km non ci sono, forse sono stati già tolti o forse li ha spazzati via il vento; il mio Garmin è nascosto sotto la giacca a vento e non ho abbastanza forza nelle dita per scostarla e vedere quanto manca all’arrivo… ogni metro interminabile! Poi finalmente un tratto in pianura, meno ripido e lassù su una piccola collinetta, esposta alle intemperie, la sagoma dell’Osservatorio. Adesso si che corro anche se ho le gambe come due pezzi di legno, corro verso il traguardo e nel contempo scappo dalla bufera, dalla grandine, dalla paura. Il pallone gonfiabile è stato abbattuto, ci passo sopra invece che passarci sotto come sarebbe stato logico immaginare, e mi viene incontro qualcuno che mi avvolge con una coperta.
Me l’ero immaginato diverso l’arrivo, con questo gonfiabile largo appena per far passare una persona… perché la Supermaratona dell’Etna non è una gara come le altre, in cui si arriva in 3-4 persone contemporaneamente al traguardo: qui si arriva centellinati, uno alla volta, il momento dell’arrivo appartiene ad uno solo, non si divide con nessuno. E’ un attraversamento simbolico, come se si dovesse entrare in un’altra dimensione spazio-temporale, come se da quell’arrivo iniziasse qualcos’altro, oltre a simboleggiare il termine e completamento della gara stessa. Per questa volta l’Etna mi ha concesso di concludere dignitosamente la Supermaratona ma non di passare “dall’altra parte”… perché per poterlo fare ho bisogno di un po’ più di esperienza e di allenamento. Ma questa non è una cosa di cui mi rammarico, anzi sarà lo “spronamento” a proseguire, a non mollare, a riprovarci più consapevole delle mie capacità ma con la curiosità di chi sta facendo qualcosa per la prima volta.
E’ stato un bene che quest’anno il traguardo fosse stato posto a 2847 mt perché non sarei stata pronta ai 3000 mt, probabilmente non ci sarei arrivata. I 3000 sono il prossimo traguardo, l’obiettivo da sognare e per cui lottare per tutto un intero anno.”
Simona Patti